FareRete Innovazione BeneComune APS -Onlus: Sussidiarietà orizzontale di associazionismo; l’esperienza del “Progetto PUC XIII Municipio Roma”

Si è appena concluso l’iter del percorso Progetti Utili alla Collettività – PUC per beneficiari RDC del Municipio XIII di Roma – prima edizione: giugno / dicembre 2021

L’accoglienza astratta e la diffidenza, che a volte si trasforma in ostilità, sembrano essere le uniche modalità attraverso le quali le società occidentali riescono a gestire le problematiche legate a persone fragili.

Da un lato, si assiste a una retorica dell’accoglienza che risulta incapace di affrontare i problemi concreti e di confrontarsi in modo sostenibile e non emergenziale con la realtà.

Dall’altro, si manifestano comportamenti pregiudiziali, e persino ostili, verso chi percepisce il Reddito di Cittadinanza.

La comunicazione e la realtà, però, divergono.

Entrambi questi atteggiamenti teorici nei confronti delle problematiche legate a persone fragili, condizionati dall’inseguimento di risultati immediati e dall’esigenza di rispondere alle emergenze, sono insufficienti per affrontare le difficoltà e le sfide quotidiane che le società contemporanee si trovano ad affrontare.

Serve un impegno quotidiano delle istituzioni, della politica dei cittadini e di ogni membro di società.

L’approccio operativo dell’associazione FareRete Innovazione BeneComune APS -Onlus al Fondo Sociale Europeo per il “Progetto PUC (Progetto Utilità Collettiva) Quota Servizi del Fondo Povertà – Annualità 2018 Progetto ReI/RdC. Servizi e interventi di contrasto alla povertà”, (link  https://www.fareretebenecomune.it/online/progetto-puc_fareretexiiimunicipio/  promosso a Roma nel XIII Municipio (link  https://www.comune.roma.it/web/it/informazione-di-servizio.page?contentId=IDS809552) è stata vissuta come esperienza innovativa, accettata e approvata con determina dirigenziale del 27/05/2021 e dalla volontà di impegno della nostra associazione “FareRete BeneComune” O.N.L.U., per il periodo giugno – dicembre 2021 I dati sul reddito di cittadinanza ci hanno imposto di lavorare ancora più in profondità sull’educazione, al rispetto, partendo dai più giovani, e sull’impegno diretto delle istituzioni, nei ruoli apicali, ma anche di cittadini che vogliono costruire il Bene Comune, per il paese, il territorio in cui viviamo e per le comunità di appartenenza.

Le profonde trasformazioni sociali, alimentate dalla globalizzazione dell’economia e dei mer­cati, dai processi demografici e migratori e, da ultimo, dalla generale crisi economica, ulteriormente aggravata dalla pandemia, hanno rivoluzionato, come è ben noto, le garanzie tradizionali del diritto del lavoro, inteso come parte costitutiva del diritto sociale. Il RdC dovrebbe contrastare fenomeni sociali come la povertà, l’alta disoccupazione, la precarietà e più in generale l’esclusione sociale, che caratterizzano sempre più la società contemporanea. Il reddito di cittadinanza introdotto nell’ordinamento welfaristico italiano è un “reddito minimo garantito” e, cioè, un sussidio non categoriale, non contributivo, selettivo e condizionato, che spetta solo a coloro che sono sprovvisti di mezzi a prescindere da altri criteri come l’età, l’eventuale inabilità o lo stato di disoccupazione, ed è legato a percorsi di accesso al mondo del lavoro. In questo ambito, dottrinale e di politica del diritto, dovrà essere valutata la funzione del reddito di cittadinanza tra aporie e prospettive.

Una norma che non si limita a promuovere la cultura del rispetto e dell’eliminazione di ogni forma di discriminazione ma che riorganizza e potenzia tutti i servizi della rete e i fondi a supporto delle Povertà.

L’incontro con i percettori di reddito ha costituito per noi un’esperienza unica.

È stato un piacere e una soddisfazione confrontarci con un’umanità diversa, sempre affascinante nella sua varietà.  Ci siamo trovati davanti ad un pubblico diverso, una realtà e mondo ignoto che si presenta con caratteristiche proprie, peculiari, con cui vogliamo confrontarci e su cui vogliamo indagare.

Adulti, di età variabile, donne e uomini, ognuno con una sua storia da raccontare, un suo universo di esperienze, piuttosto vasto e diversificato, una sua visione del mondo e delle cose.

Persone diverse, senza legami tra loro, ciascuno con una sua vita vissuta, con le proprie esperienze di gioia e di amarezza, oggi insieme per la prima volta, seduti attorno ad un tavolo a confrontare le loro idee, a partecipare ad un progetto di formazione.

Essi si domandano, prima sommessamente, poi sempre più palesemente, quale formazione si può proporre a persone che non si conoscono, che presentano, ciascuno, una propria irripetibile specificità, che forse non vogliono neanche confrontarsi.

C’è però un’istanza insistente, ripetuta, condivisa che queste persone avanzano, una speranza che coltivano e che teme di andare delusa: la speranza di un lavoro, un lavoro adeguato, rispondente alle loro attitudini e professionalità varie.

Il pubblico che ci troviamo dinanzi appare guardingo, circospetto, si chiede perché sia stato scelto per questo progetto di formazione; in realtà, in maniera più o meno dichiarata, si chiede a cosa serva questa formazione, se non a lavorare. Esplicitare che la formazione è questione prioritaria e preliminare rispetto ad ogni mansione o attività che si possa o voglia svolgere, a ogni qualifica che si potrà rivestire in futuro, è questione piuttosto impegnativa; spiegare che i nostri incontri non sono finalizzati a trovare loro un lavoro

nell’immediato, ma a coltivare quelle abilità, competenze e conoscenze che potranno poi essere spese nel mondo produttivo è compito non facile.

Le persone che abbiamo davanti hanno profonda dignità, non si accontentano di una più o meno munifica elargizione monetaria, non vogliono regalie, aspirano invece ad un lavoro che sancisca anche il riconoscimento della loro qualità di cittadini e di lavoratori, con uno status adeguato alla loro posizione e alle loro funzioni. Chiedono la dignità di un salario proporzionato alla qualità e quantità dell’impegno profuso, delle mansioni svolte.

Non sono qui a vantare pretese di redditi elargiti a pioggia, senza controprestazione, aspirano a quel lavoro su cui si poggia l’impianto stesso della nostra Repubblica democratica.

Tuttavia i percettori non hanno avuto l’opportunità di godere di una formazione adeguata, che sappia unire teoria e pratica, in un lavoro indirizzato ad una professionalità più ampia e valida, non hanno usufruito di  una formazione capace di  dare spazio a quelle buone pratiche di civiltà che costituiscono una cittadinanza attiva e responsabile, che sanno indirizzare verso l’idea di bene comune:  tale idea  dovrebbe essere patrimonio condiviso della società  e  rappresentare anche il benessere di ciascuno.

Così i nostri incontri iniziano in un clima un po’ guardingo, di circospetta attenzione, di non dichiarata ma sottile diffidenza, con i volti degli astanti che sommessamente si interrogano sullo scopo e sull’utilità dei nostri incontri.

In ogni caso il pubblico che abbiamo davanti è affascinante: vediamo persone che ci appaiono in un primo momento quasi isolate, ciascuna chiusa nel proprio universo di esperienze e amarezze, una monade nella quale è difficile trovare un solco, penetrare con una speranza, aprire un varco di condivisione.

Eppure, la loro istanza di apprendere, conoscere, capire, emerge più chiara man mano che gli incontri procedono; i percettori vogliono attingere avidamente da uno scrigno di conoscenze, di confronti, di idee fino ad ora ad essi negato, estraneo al loro vissuto.

Ecco; diremo che prima dei nostri incontri gli ascoltatori ci apparivano disorientati, quasi abbandonati a sé stessi, privi di riferimenti adeguati per muoversi con consapevolezza nella complessa realtà del mondo odierno, della burocrazia, dei servizi, del lavoro.

Abbiamo cercato insieme di comprendere, di interpretare, di trovare le giuste chiavi di lettura di una società vasta e composita. La larvata diffidenza iniziale è divenuta poi attenta curiosità, si è mutata nella proposizione di interrogativi, ha lasciato spazio ad una percorso di sviluppo della conoscenza: il nostro pubblico appare ora consapevole delle difficoltà di muoversi in un contesto ampio e diversificato, con tante differenti realtà, ma forse sta maturando finalmente la capacità di affrontarle con gli strumenti adeguati, con la consapevolezza di far parte di una comunità attiva, partecipe, capace con la propria iniziativa di costruire un proprio percorso sociale e professionale e di contribuire così al bene comune.

L’esperienza intrapresa con questo piccolo numero di persone, circa 60 percettori di RdC, con le quali stiamo sviluppando un progetto pilota, INNOVATIVO, un percorso formativo pensato e destinato ai percettori del reddito di cittadinanza con caratteristiche di concretezza ed orientamento al lavoro, basato profondamente sul prendere consapevolezza per entrare in una dimensione di “RELAZIONE”.

La relazione è uno degli elementi intangibili, per di più considerata al contempo strumento e obiettivo di lavoro: è attraverso la relazione che possono avvenire certi cambiamenti e, d’altro canto, lo stesso prendere forma della relazione costituisce un esito dei processi attivati. Stiamo quindi parlando di un elemento per sua natura complicato da afferrare e che facilmente può divenire parola vuota, dal significato superficiale.

Per chiudere il cerchio sappiamo come il modello socioeconomico-culturale nel quale siamo immersi si concentra su aspetti (a volte considerati valori) quali successo, potere, prestazione: tutti elementi che, per essere cavalcati a dovere, mettono in ombra, o proprio da parte, la cura dei rapporti interpersonali e la costruzione di relazioni significative. Sottolineo l’aggettivo “significative” perché spesso ci dimentichiamo che non basta essere gentili e accoglienti per essere coautori di una relazione ma occorre ben altro.

Oggi si fa un gran parlare di comunità, di reti, di partecipazione: parole che richiamano il bisogno di riattivare o consolidare relazioni tra le persone che gridano un malessere che spesso non ha nome e ricerca consolazione in immagini di passato o futuro ideali, dove le persone si aiutano, condividono, si supportano e proprio per questo sono felici. C’è un bisogno fortissimo di ritrovare umanità nel mondo, nell’incontro quotidiano con gli altri per non sentirsi svuotati di una dimensione tanto essenziale dell’essere umano.

Sono i modelli da seguire per una società che sappia davvero eliminare la povertà

«La natura dell’uomo è rivelata nelle relazioni inter-personali».

Cosa vuol dire relazione? Mi piace rispondere così: la relazione è la costruzione di legami tra le persone. Si tratta di legami che hanno a che fare con le esperienze vissute insieme, con la storia comune, con le nostre parti emotive, con il sentirci accolti e rispecchiati, ascoltati e rispettati nella nostra unicità. Come arrivare alla costruzione di tali legami è strettamente connesso, tra gli altri, a due elementi in particolare: il tempo e l’informalità. È evidente quanto una relazione abbia bisogno del tempo per costruirsi e consolidarsi. Ci vuole tempo per conoscersi, per capirsi, per fare esperienza insieme, per mettersi alla prova, per attraversare i momenti difficili, per celebrare e fissare quelli positivi. Serve tempo per comprendere i diversi punti di vista, le differenti visioni del mondo, per superare le mille automatiche paure dell’altro che ci difendono dall’essere feriti, umiliati, derisi, ingannati, sfruttati. Ci vuole tempo per tenere in ordine la relazione, per puntellarla quando scricchiola, per sostenerla quando evolve, per nutrirla quotidianamente, per tenerla viva anche nelle possibili lunghe pause e separazioni, per aggiustare le normali incrinature che le relazioni comportano, per attraversare la fatica e la profondità dei conflitti

come esperienza vitale, per imparare a comunicare quello che siamo davvero. La relazione ha bisogno di ripetitività, di continuità e gradualità, non ama la fretta, la superficialità. Senza tali condizioni difficilmente nascono e si consolidano i legami necessari per creare relazione, e costruire la reciprocità che rende fertile l’incontro.

Non ci sono ricette: ma la ricerca personale per entrare nella fiducia

Come orientarsi allora in un questo mondo complesso? Come divenire consapevoli costruttori di relazioni? Temo che non esistano ricette di facile consultazione e applicazione. Esistono forse spunti o tracce da tenere a mente, da considerare con coraggio e con spirito di ricerca più che detentori di soluzioni. Cercheremo comunque di attingere all’esperienza diretta per delineare in modo concreto alcune linee di indirizzo per riflettere. 

Riteniamo ci siano due elementi principali da mettere a fuoco: da una parte il legame tra la ricerca personale e la capacità di stare in relazione, dall’altra i processi implicati nella costruzione della fiducia.

Credo che ogni persona abbia un forte bisogno di riconoscimento, senta la necessità di essere vista, considerata, di vivere negli occhi e nell’attenzione degli altri.                   

Per questo motivo consideriamo essenziale in ogni incontro interpersonale lo sguardo che si ha sull’altro che deve tenere insieme la comprensione, l’empatia, l’accettazione ma soprattutto la consapevolezza della fragilità e dei limiti umani. Non è uno sguardo facile da sostenere perché richiede, come presupposto, che tutte queste attenzioni siamo prima di tutto dedicate a sé stessi. Essere empatici e comprensivi con sé stessi e con le proprie parti sgangherate è impresa ardua, mai data una volta per tutte, che ci accompagna tutta la vita e richiede spesso contesti appositi e sostegno di guide o di gruppi. Entriamo cioè nell’alveo della ricerca personale quale prerequisito dell’incontro con l’altro.

Ogni persona inoltre ha bisogno di testare la propria fiducia, di mettere in qualche modo alla prova il suo interlocutore. Si tratta di test, fatti non sempre consapevolmente, ma estremamente importanti per cominciare a costruire i gradini di una scala di conoscenza reciproca. Per questo motivo è fondamentale fornire elementi che possano dare corpo a tale fiducia: non parliamo di detenere solamente competenze professionali, ma anche di fornire aiuto nei momenti difficili, accogliere con pazienza gli altri, incontrarsi personalmente faccia a faccia con calma e più volte per lasciare alla fiducia il tempo di soddisfarsi. È pur vero che la fiducia è una materia dispettosa, poiché quanto più è delicata la sua costruzione tanto più veloce è la sua distruzione; quanto più è articolato il puzzle dei dettagli che la sostengono, tanto più è misero e sciocco l’evento che può minarla alla base.

Inoltre, per quanto ci sforziamo di comprenderla, la fiducia conserva pur sempre un alone di intangibilità, un legame forte con una dimensione quasi spirituale nella quale l’unica reale strategia è lasciarsi andare, credere. Crediamo occorra partire da chi (e mi colloco tra questi) ha scelto di essere a supporto delle istituzioni, e prendersi la responsabilità di divenire, parafrasando Gandhi, il cambiamento che si vuole per il

mondo. Per farlo occorre abbandonare un po’ di certezze date dall’appartenenza professionale, lasciare la fede e la centralità di alcuni strumenti, e riconsiderarne altri di uguale se non maggiore importanza.

Serve aprirsi a un approccio lavorativo per certi versi più faticoso perché maggiormente imprevedibile ma anche più ricco, vivo e autentico.

Credo sia questa la chiave per uscire da quelle logiche tanto farraginose e pesanti della nostra società in generale: la burocratizzazione, l’economicismo, la medicalizzazione del disagio, l’intervento solo o quasi sull’emergenza. A ben guardare si tratta di sintomi dello stesso male: la solitudine, la mancanza di legami; sono tutte armi per allontanare, per chiudere, ma anche per segnalare la fatica e il profondo desiderio di essere incontrati davvero come persone.

La cura della relazione interpersonale, non è un di più, un dettaglio che si può considerare o meno a seconda dei gusti e delle disponibilità, È il fulcro del nostro lavoro e della nostra vita che per troppo tempo ci siamo dimenticati di coltivare, soprattutto in questo ultimi tempi Covid.

È la relazione che ci permette di entrare in sintonia con la “COMUNITA” .

Stiamo parlando di legame con il territorio perché le relazioni tra cittadini, organizzazioni e comunità, da cui le prime traggono linfa e risorse, costituiscono un aspetto rilevante per le possibilità di sviluppo di un territorio di un’organizzazione e ne divengono caratteristica saliente nei periodi difficili, quando si deve manifestare quella resilienza che permette a tutti i cittadini di resistere, trasformarsi e ripartire grazie al contributo ed allo spirito di sacrificio delle persone che di quelle comunità sono i rappresentanti.

Per questo coltivare la relazione con le comunità è importante e ci sono modalità consolidate per farlo. Per questo il taglio che abbiamo voluto dare al Progetto PUC – “Aiutare ad Aiutarsi” – per centrare il tema (compartecipazione alle realtà locali e sviluppo della forza lavoro), una dell’aree relazionali considerate nella sua strategia di approccio è la formazione di soggetti a cui è dedicato questo PROGETTO, lasciare delle tracce, delle impronte per avere la capacità di contaminazione dobbiamo essere protagonisti abbiamo tutte le carte in regola per esserlo.

Il RdC è un punto cardine di giustizia civile, dobbiamo promuovere tutte le condizioni perché tutti possono partecipare a pieno titolo, alla vita   sociale economica e culturale della comunità, alla vita comunitaria con dignità, contrastare tutte le forme di ingiustizia, dobbiamo rivendicare il grado di civiltà, misurare l’attenzione e la cura ai membri più fragili, più vulnerabili, dobbiamo mirare all’inclusione e alla giustizia sociale.

Oggi noi tutti siamo coinvolti in questa azione, e i nostri “pucchisti” sono i PROTAGONISTI

Conclusione Secondo le informazioni rilasciate dall’Istituto di previdenza, il 70% di chi percepiva il beneficio nella primavera del 2019 lo riceveva ancora a fine 2021. Il reddito ha sostenuto oltre due milioni di

famiglie, costando circa 20 miliardi di euro. In questi mesi scattano le modifiche decise dal governo Draghi. La misura però è un importante sostegno per chi ha difficoltà economiche: tra aprile 2019 e dicembre 2021 hanno avuto almeno una mensilità di reddito o pensione di cittadinanza oltre due milioni di famiglie. Due percettori su tre risiedono al Sud o nelle Isole: “La misura appare essere un sostegno non solo per i nuclei familiari, ma anche per alcuni precisi contesti locali con indicatori di disagio economico particolarmente accentuati”, si legge nel Rapporto annuale Inps

A essere coinvolte sono 4,65 milioni di persone, per una spesa che dall’aprile del 2019 alla fine del 2021 è costata circa 20 miliardi di euro. A dicembre i percettori del reddito di cittadinanza tenuti alla sottoscrizione del patto per il lavoro erano 1.109.287, di cui però solo il 37,9% risultava preso in carico. Il governo è intervenuto con la legge di Bilancio per il 2022 per modificare alcune regole del reddito di cittadinanza, introdotto dal governo Conte (in foto la presentazione con Di Maio): quando il percettore rifiuta un’offerta di lavoro, l’assegno si riduce ogni mese di 5 euro. Scendono inoltre da 3 a 2 le proposte che possono essere rifiutate: al secondo no, il sussidio viene revocato. È stata inoltre ridotta da 100 a 80 km la distanza massima dalla residenza del beneficiario per la congruità della prima offerta di lavoro, mentre la seconda può essere collocata ovunque in Italia. Le modifiche disposte dal governo prevedono anche l’obbligo della partecipazione periodica ad attività e colloqui in presenza, almeno una volta al mese: è sufficiente una sola assenza ingiustificata per perdere il sussidio

Informazioni generali

UN’ANALISI CRITICA DEL REDDITO DI CITTADINANZA

L’Italia si trova in un momento decisivo per il suo welfare: il nostro Paese si sta finalmente dotando di uno strumento strutturale di sostegno al reddito destinato a chi si trovi in povertà assoluta.

L’analisi condotta nelle pagine precedenti, nelle quali sono stati esaminati gli schemi succedutisi in Italia, consente di elaborare alcune considerazioni, in termini di similitudini, differenze, miglioramenti, apprendimento, che si riscontrano nella nuova misura rispetto agli strumenti precedenti. Il RDC prenderà il posto del REI, dal quale, pur riprendendone alcuni aspetti, se ne allontana per molti altri. Superato ogni connotato categoriale, ancora presente nella Carta Acquisti, nel SIA e nella

prima versione dello stesso REI, entrambi gli schemi sono universali, non operando discriminazioni in base a classe sociale, genere o età dei beneficiari.

Ambedue gli strumenti, inoltre, parimenti al RMI e differentemente dal SIA e dalla Carta Acquisti, prevedono un trasferimento monetario che, come raccomandato dalla Commissione Onofri, varia in funzione del reddito disponibile, tenendo contemporaneamente conto di altre condizioni del nucleo familiare.

Tuttavia, a questo proposito occorre evidenziare una profonda differenza tra i due strumenti: la scala di equivalenza utilizzata nel REI è sensibilmente più generosa verso i nuclei familiari numerosi, tra i quali si registrano i tassi di povertà più elevati, rispetto alla scala di equivalenza adottata nel RDC. Questa non trova corrispondenza in nessuna delle scale di equivalenza utilizzate a livello internazionale per calcolare l’importo di strumenti di natura assistenziale, e, oltre a presentare un valore massimo di 2,1 contro quello di 5 previsto dal REI, non prevede nessuna maggiorazione per nuclei con tre o più figli a carico, con disabili o con non-autosufficienti, nonostante queste ultime due condizioni siano considerate nel calcolo dell’Isee per l’accesso alla misura.

Tutto ciò avviene mantenendo un trasferimento molto generoso per un singolo, non solamente se valutato rispetto all’importo del REI, ma anche considerando l’importo giudicato adeguato dall’Alleanza contro la povertà in Italia. Il beneficio economico massimo di 780€ per un singolo corrispondeva alla soglia di povertà relativa calcolata con il criterio dell’Eurostat per il 2014. Gli ultimi dati Istat (2018) disponibili sulla povertà in Italia indicano una profonda eterogeneità territoriale non tanto nella diffusione del fenomeno, ma soprattutto nel valore della soglia di povertà. La tabella seguente (figura 2.1) ne riporta i valori per una persona singola: come si nota, essi variano non solo da regione a regione, ma anche, all’interno di una medesima regione, tra grandi e piccole città.

Figura 2.1: Soglia di povertà assoluta per singolo individuo, ripartizione geografica.

AMBITO TERRITORIALE     NORD           CENTRO                    SUD

Area metropolitana                 826                  795                           618

Grande Comune                         787                 754                           597

Piccolo Comune                          742                 707                          560

Fonte   Istat  (2018)

Uno strumento concepito per il contrasto alla povertà non può non tenere in considerazione il differente costo della vita tra Nord e Sud Italia. Come previsto nella proposta del REIS, il REI, tramite la deduzione del canone di locazione nel calcolo del reddito disponibile, garantiva una certa discriminazione territoriale della prestazione in funzione del livello di prezzi. Il RDC, invece, erogherà su tutto il territorio nazionale un importo uniforme, che, dunque, per alcuni risulterà insufficiente, mentre per altri sarà perfino eccessivo, con un conseguente spreco ingente di risorse. Considerando quanto scritto finora riguardo alla scala di equivalenza utilizzata, che penalizza le famiglie numerose, e alle difformità territoriali del valore della soglia di povertà, è facilmente deducibile che al crescere del numero di componenti di un nucleo familiare residente al Nord o al

Centro, il beneficio economico del RDC garantirà un livello di reddito che è sempre più lontano dalla soglia di povertà. Ad esempio, per una famiglia composta da due adulti e due minori che abita in un’area metropolitana del Nord la soglia di povertà calcolata dall’Istat è di 1.680€ mensili, contro un importo massimo del RDC di 1.180€.

Ciò premesso, i dati e le simulazioni sulle esperienze italiane di strumenti di questo tipo, tra cui quelli riguardanti la Carta Acquisti e il REI riportati in questo lavoro, insegnano che un trasferimento monetario raramente consente di superare la condizione di povertà; solitamente, piuttosto, riesce a ridurne l’intensità.

Gli esempi europei di misure per la lotta alla povertà, infatti, sembrano mirare, più ragionevolmente, al secondo di questi due obiettivi. Di conseguenza, come mostra il grafico seguente (figura 2.2), basato su dati del 2016, l’importo dello strumento di supporto al reddito è ovunque sensibilmente inferiore alla soglia di povertà per una singola persona.

Figura 2.2: Soglia di povertà e reddito minimo garantito nei paesi UE, valori al 2016


Fonte: Elaborazione Osservatorio CPI su dati Eurostat e Parlamento Europeo (2018).
 

Un trasferimento generoso come quello previsto dal RDC, inoltre, aumenterebbe il rischio di comportamenti sleali e di caduta nella trappola della povertà.

Questo rischio viene ulteriormente accresciuto dall’assenza di un meccanismo di cumulo con il reddito da lavoro, come era invece presente nel RMI e nel REI. Queste misure prevedevano la deduzione di una quota del reddito da lavoro nel calcolo del reddito disponibile, pari, rispettivamente al 25% e al 20%. In assenza di un tale meccanismo, presente anche in molte misure europee, un lavoratore a basso reddito beneficiario del RDC (un cosiddetto working poor) non avrebbe alcun incentivo a lavorare più ore, o ad accettare un lavoro meglio retribuito. Ciò comporterebbe, infatti, una sorta di “effetto sostituzione” a favore del sussidio: ogni euro in più guadagnato implicherebbe un euro in meno di trasferimento. Dalla figura 2.3 risulta chiaro come gli schemi che prevedono un sistema di cumulo del sussidio con il reddito da lavoro, come il REI o, ancora di più, come il Prime d’activité francese (che stabilisce una deduzione del 38%), si configurino come un beneficio per chi lavora (in-work benefit), rendendo conveniente il lavoro.

Figura 2.3: Meccanismo di cumulo del sussidio con il reddito da lavoro: un confronto tra Francia e Italia



Fonte: Elaborazioni Centro Studi Confindustria su fonti ministeriali e legislative (2018).

Nell’impianto del RdC l’inserimento occupazionale ha un ruolo centrale. Anche riguardo questo aspetto, le esperienze passate dovrebbero essere di insegnamento: come emerso dall’analisi dei progetti di inclusione lavorativa previsti dal RMI e dal SIA, la presenza di un mercato del lavoro dinamico ed efficiente, e di una rete già consolidata di enti sociali attivi nel campo della lotta alla povertà è una condizione necessaria per il successo di tali programmi. In questa prospettiva, la predisposizione di politiche attive per il mercato del lavoro è essenziale: in caso contrario, considerata la scarsa domanda di lavoro da parte delle imprese, soprattutto al Sud, e il blocco delle assunzioni per quasi tutto il 2019 in alcuni comparti della Pubblica Amministrazione previsto dal maxiemendamento alla legge di bilancio, si correrà il rischio di ridurre il nuovo strumento alla sola erogazione di un sussidio.

La gran parte del peso dei progetti di inclusione sociale e lavorativa ricadrà sui Centri per l’Impiego, ai quali saranno dedicati ingenti investimenti. Il coinvolgimento di tali enti era previsto anche nel REI, senza, tuttavia, che ad essi fossero assegnate particolari risorse. Il potenziamento dei Centri per l’impiego è, dunque, una novità positiva, considerato il ruolo marginale da questi rivestito in passato (secondo i dati Istat, nel 2015 solo il 10,2% di chi cercava lavoro si è rivolo ai Centri per l’Impiego, e solo il 2,9%, tra il 2003 e il 2010, ha effettivamente trovato un’occupazione). Dall’altro lato, la novità negativa è la completa esclusione dei Comuni dal coordinamento della misura. Le raccomandazioni della Commissione Onofri, che individuava nei Comuni i soggetti meglio indicati a gestire una rete di soggetti (terzo settore, Asl, associazioni di volontariato…) attivi nel welfare locale, erano state accolte dal RMI, dal SIA e dal REI. Considerando, ad esempio, che i Comuni hanno già il compito di svolgere perequazioni individuali per l’indennità di accompagnamento erogata dal Governo centrale, creare un sistema del tutto parallelo a quello esistente comporterebbe uno spreco di risorse, oltre al mancato coinvolgimento degli enti più efficaci nel valutare la natura multidimensionale della povertà. In ogni caso, è più che lecito immaginare che né Comuni né Centri per l’Impiego sarebbero in grado di assistere, da subito, una platea così ampia

di poveri. Infatti, se, da un lato, gli stanziamenti per il RDC sono in linea con la soglia di spesa minima stimata dell’Alleanza per una misura di questo tipo, dall’altro, rendere immediatamente disponibili quasi 6 miliardi di uro per il 2019 con l’obiettivo di introdurre uno strumento pienamente a regime da subito può rivelarsi una scelta dissennata.

Come sottolineato da Commissione Onofri e Alleanza, e come confermato dagli schemi che si sono succeduti, l’introduzione di strumenti di reddito minimo comporta l’implementazione di una reta organizzativa complessa, che coinvolge diversi soggetti operanti nel welfare. La realizzazione di un sistema amministrativo ben funzionante, dalla raccolta delle domande alla predisposizione dei progetti personalizzati di inclusione sociale e lavorativa, costituisce un fattore fondamentale per il successo della misura. Il REI, seguendo le raccomandazioni dell’Alleanza, avrebbe dovuto portare ad un graduale allargamento della platea dei beneficiari, in modo da assicurare ragionevoli tempi di apprendimento a tutti gli enti interessati nel processo di erogazione dello strumento.

Considerando, che, come spiegato, il RDC è costruito, dal punto di vista gestionale, in totale discontinuità con il REI, la sua attuazione richiederebbe un gradualismo altrettanto ponderato, che sposi il principio del “dare prima a chi sta peggio”.

In conclusione, l’attuale Governo, con il totale azzeramento del lavoro fatto con il SIA prima, e con il REI dopo, e con una fretta che, in questioni così delicate, è nemica dell’efficacia, potrebbe perdere una grande occasione. Un’occasione probabilmente unica, e che deve essere sfruttata al meglio, data l’estrema difficoltà nel modificare misure che prevedono trasferimenti monetari a gruppi sociali. Un maggiore realismo riguardo agli obiettivi raggiungibili, insieme ad un maggior apprendimento dall’esperienza, conferirebbe a questo Esecutivo il merito memorabile di aver dotato l’Italia di un efficace strumento universale e strutturale di contrasto alla povertà.

Ringraziamo il XIII Municipio di Roma, Il direttivo dell’Associazione FareRete InnovAzione BeneComune, che ci hanno permesso di poter fare un’esperienza unica partendo dal basso, ringrazio i docenti e tutor a 360 gradi la dr.ssa Annarita Innocenzi docente alla Sapienza di Diritto Costituzionale, la Dr.ssa Sara Virgilio Biologa, la Dr.ssa Francesca Andronico psicologo, e tutti gli intervenuti percettori di reddito di Cittadinanza “pacchiasti”.

Rosapia FaresePresidente Ideatrice e promotrice Associazione FareRete Innovazione il Bene Comune

 – il benessere e la salute in un mondo aperto a tutti -Michele Corsaro-   

Annarita Innocenzi – Docente Diritto Costituzionale

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