Matteo La Torre – Tempi rapidi e Riforme tangibili: le sfide del Recovery Plan

Mentre a Bruxelles cresce la fiducia nei confronti del neo governo Draghi, i tempi per presentare il Recovery Plan si fanno sempre più stretti.
La sfida del nuovo esecutivo sarà completare il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) in tempi record, inserendo riforme decisive che l’UE raccomanda da anni.

L’aspettativa dei vertici europei nei confronti del Recovery Plan dell’Italia era ben diversa da quanto si sta verificando: trattandosi del primo Paese beneficiario dei fondi europei del Next Generation EU, e anche alla luce delle pressioni esercitate mesi fa dal Governo italiano per ottenere un debito comune europeo – una novità di portata storica, che ha cambiato il volto dell’Europa – Roma sarebbe dovuta essere la prima capitale a presentare il Piano nazionale di ripresa e resilienza. 
Invece la crisi politica ha fatto accumulare ritardi e le prime bozze inviate a Bruxelles non hanno convinto i vertici europei: il Recovery Plan dev’essere rafforzato sotto il punto di vista delle riforme, avverte la Commissione. 
Un monito che è arrivato anche dall’ex premier e attuale commissario all’Economia Paolo Gentioni: “Per l’Italia il Recovery è l’occasione della vita”. Le risorse a disposizione del Paese all’interno del Next Generation EU “devono essere usate non solo per riparare i danni della pandemia, ma anche per affrontare i punti deboli che abbiamo da molto tempo”.

La parola chiave nel confronto con l’Europa è riforme.
Riforme che non vanno solo indicate in modo vago né dovrebbero essere sintetizzate in poche parole, ma che occorre spiegare nel dettaglio, dal momento che la Commissione europea le considera parte integrante del Piano. 
Le maggiori riguardano: giustizia, pubblica amministrazione, fisco e pensioni (con l’abolizione di quota 100). 

Orientativamente nella terza settimana di febbraio la Commissione europea aprirà alle notifiche formali dei Piani nazionali per accedere ai finanziamenti. Per ottenere il via libera ci vorranno almeno tre mesi: due per le valutazioni di Bruxelles e uno per quelle delle capitali. E se Roma vorrà incassare già a giugno l’acconto del 13% dei 209 miliardi del Recovery, serve necessariamente concludere il piano in tempi rapidi.

A preoccupare, oltre al capitolo riforme e i tempi di consegna del Piano, è la capacità di assorbire i fondi europei. Capacità, quest’ultima, per cui l’Italia finora non ha brillato.  
Ma il Recovery ha regole d’ingaggio diverse rispetto ai fondi europei tradizionali a disposizione dei singoli Paesi: le risorse arrivano cioè a tranche e se non si impiegano secondo i tempi e gli obiettivi che i Governi stessi hanno fissato, si blocca la tranche successiva. Rispettare i tempi, insomma, è non solo un impegno che il Paese deve assumersi alla luce di una crisi drammatica, ma un dovere.
Ed è qui che entra in ballo la sfida del nuovo Governo Draghi, che rischia di avere due pesanti conseguenze.
La prima riguarda da vicino il futuro dell’Italia: agli occhi dei partner europei, infatti, il Recovery rappresenta una chance impedibile per ammodernare l’economia italiana attivando riforme ed investimenti ed avviare un percorso virtuoso di crescita che potrebbe contribuire anche a una maggiore sostenibilità del debito.
La seconda è invece di respiro europeo: la crisi del primo Paese beneficiario del Recovery potrebbe innescare un processo inverso rispetto a quello avviato dall’Unione europea nel 2020 per far fronte alla crisi causata dalla pandemia. Paesi come Francia e Germania, e la stessa Commissione europea, che la scorsa primavera si sono battuti al fianco di Roma per rispondere all’emergenza attraverso una condivisione del debito, oggi temono che un flop italiano darebbe nuovo vigore ai falchi del Nord Europa, vanificando in tal modo il lavoro di chi immagina di sfruttare il successo del programma  Next Generation EU per rendere permanente il meccanismo di debito comune tramite gli eurobond a sostegno dell’economia.

Matteo La Torre

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