L’ESPERIENZA NEL TERZO SETTORE: FareRete Innovazione BeneComune APS -Onlus, Costruttori del BeneComune

L’ESPERIENZA NEL TERZO SETTORE:
FareRete Innovazione BeneComune APS -Onlus: Costruttori del BeneComune     > un’opportunità per lo sviluppo culturale, la finalità non lucrativa; gli scopi di utilità̀ generale; e un impatto sociale attento alla valorizzazione delle persone e alla promozione della cultura  e delle comunità. 

Cultura bene comune? Una riflessione retrospettiva
La partecipazione e la centralità dei cittadini, nell’ambito dell’azione generale sugli aspetti CULTURA – EDUCATIONAL – FORMAZIONE sono obiettivi prioritari nel più ampio concetto di valorizzazione, teso ad incrementare principi e strategie di sviluppo del patrimonio culturale personale e per l’organizzazione sociale di gruppi, che sentono la necessità di un nuovo modello di pensiero che abbraccia definitivamente un modello circolare.
“La conoscenza, il sapere, gli affetti e i prodotti dell’espressione umana sono un bene comune in senso stretto, e non merci. Quanto più si ‘consuma’ sapere, tanto più questo si moltiplica e si diffonde. È un bene generativo ed epidemico”.
   ‘Il ‘francescanesimo’ di Vincent Van Gogh

L’invito di Rosapia Farese, Presidente dell’Associazione ‘ FareRete InnovAzione BeneComune APS**  a visitare la mostra che Palazzo Bonaparte ospita in onore di Vincent Van Gogh e ad incontrarci per scambiare reciprocamente idee ed esperienze di vita mi è giunto in un momento particolare,  dedicato alla solitaria riflessione: eppure non ho potuto resistere; Rosapia infatti non è solo una donna ricca di iniziative orientate alla solidarietà e alla condivisione, realizzate e in continua evoluzione ed innovazione all’interno della associazione citata,  ma è una persona davvero speciale, capace di partecipazione empatica, di spontanea solarità e vis comunicativa, di uno spirito di accoglienza non comune.
D’altro canto come resistere ad una mostra dedicata alle  opere di Vincent Van Gogh che giunge fino a Roma, quando la passione che nutro per le meravigliose tele del pittore mi aveva condotto ad Amsterdam fin dalla mia prima giovinezza?
Così mi ritrovo nell’atrio di Palazzo Bonaparte e comincio a contemplare col fascino di sempre le  opere del mio pittore prediletto.
Le immagini scorrono luminose ed affascinanti dinanzi ai miei occhi, sempre colmi di incredulo stupore quando si confrontano con le creazioni dell’olandese. Quei colori a tinte piene, luminose, quei paesaggi capaci di trascinarti all’interno della tela, di coinvolgerti nella festa di luci e  magici colori, mai dosati, bensì elargiti a piene mani da un’artista che non si è risparmiato ma ha volto gli occhi verso il cielo, i campi, l’erba, gli alberi, il vento. Il miracolo delle notti stellate, il fascino dei prati che si perdono a vista d’occhio, i fili d’erba che sembrano oscillare sotto la carezza del vento,  i cieli infiniti in cui l’astro celeste avvolge l’intero paesaggio.
Ecco, direi proprio che quei quadri sono una preghiera che sale come incenso sino a Dio, che esprimono un inno alla vita e alla gioia.

Il linguaggio della gioia: Francesco d’Assisi e Vincent Van Gogh

Intanto che la visita prosegue mi accorgo con stupore di volgere il mio pensiero a Francesco d’Assisi, il ‘Poverello’ innamorato di Dio e del creato che canta la gloria del Signore.
Ebbene, mi dico, se Francesco ha compreso nel ‘Cantico delle Creature’ l’espressione forse più sublime e più commovente della sacralità e dell’armonia del creato, non ha forse Vincent Van Gogh proclamato nelle sue opere quello stesso sentire, scegliendo il mezzo a lui più consono, quello della pittura? Quei quadri che sono l’esplosione del colore, la manifestazione della gioia più pura, giungono allo spirito e parlano un linguaggio d’amore e di armonia tra uomo e natura. E allora mi torna alla mente quell’insolito parallelo che è forse ardito, eppure mi affascina,  non riesco a cancellarlo dalla mente.
C’è, nelle opere di Van Gogh, qualcosa di infantile che si ritrova in quello stupore che i suoi quadri suscitano e che rende tutti noi partecipi di quella fanciullesca meraviglia dinanzi all’incanto del creato e al connubio tra uomo e cosmo, connubio che il pittore olandese sa così bene rappresentare; è  quello stesso stupore che Francesco, il ‘giullare di Dio’,  proclama inneggiando alla natura, dono sublime dell’Onnipotente.
  Tuttavia le opere dell’olandese, nonostante l’immediatezza del messaggio pittorico che racchiude un entusiasmo infantile, sono nei fatti  il risultato di una ricerca costante, di un’elaborazione della forma che sembra scaturire da una fonte intima, nascosta ai più, quella dell’ essenza e spiritualità dell’artista.
  Come Francesco anche Vincent non ha avuto vita facile, non si è sottratto alle prove dell’esistenza, non ha ignorato il peso della sofferenza umana che in alcuni suoi quadri drammaticamente rappresenta. Anzi, come il Poverello d’Assisi, ha condotto una vita di impegno nel difficile, di sottrazione progressiva fino all’integralità, di coerenza assoluta con i suoi valori, di totale condivisione della sorte degli ultimi
Quanti sono ora, man mano che la mia riflessione procede, gli elementi che mi appaiono comuni tra la storia di vita dell’Assisiate e quella dell’olandese. A partire dal rapporto burrascoso che entrambi avevano con il padre, fosse Pietro di Bernanrdone, o piuttosto Theodorus Van Gogh
Se Francesco ha voluto vivere il Vangelo sine glossa sino ad essere considerato pazzo dai suoi concittadini e familiari, Vincent ha cercato un’espressione del tutto originale che fosse capace di rendere il suo sentire, di raccogliere il suo messaggio sempre alla ricerca della buona novella di Cristo Redentore e Salvatore: Misurandosi con la pittura del suo tempo, cercando una modalità di espressione successiva al realismo e all’impressionismo, egli percorre una via originale che affonderà le proprie radici nel Novecento. La sua arte è una combinazione di pensiero e immaginazione espressa con il magico ausilio dei pennelli.

Vincent Van Gogh e Francesco d’Assisi: epigoni di un movimento universale

Se Francesco è stato il padre fondatore di un movimento universale che pur risalendo al Medioevo è ancora oggi ricco e fecondo di nuovi adepti, Vincent può considerarsi il padre della pittura moderna, espressa nella bellezza di quei paesaggi e di quella campagna amena che egli frequentava a Avers Sur Oise, vicino Parigi, confortato dalla vicinanza del fratello Theo.
Ma la sofferenza non lo risparmia. Come Francesco, tormentato da un male agli occhi che
lo rende quasi cieco, eppure capace in tale contingenza di comporre il Cantico delle Creature, inno a Dio e all’armonia  del creato,  così Vincent: egli non smette di rappresentare l’armonia della natura e persino quella tra uomo e macchina,  colta in alcune sue tele significative, nonostante la vita non gli lesini di certo  dolori e patimenti Egli definisce la sua esistenza come ‘la discesa infinita’ , incarnazione di una sofferenza vissuta sulla propria pelle giorno per giorno, condivisa con i più poveri, con i reietti di una società benpensante eretta su diffusi e sclerotici  stereotipi, eppure nelle sue opere fa esplodere luce e colori in maniera affatto originale, unica: la sua, come quella di Francesco, è la vicenda straordinaria di un piccolo uomo capace di sfidare la società a lui coeva, la cultura del suo tempo, gli schemi e le convenzioni.
Francesco e Vincent hanno vinto, entrambi, anche se hanno pagato il caro prezzo di un’esistenza breve e non avara di privazioni tanto intense da consumare, passo dopo passo, minuto dopo minuto, la loro stessa vita terrena.  Solo una fede incrollabile poteva sostenere una tale coerenza che si compie nel sacrificio finale, quello della vita. “ La vita è breve per tutti, il problema è nel farne qualcosa di valore” scrive Van Gogh nel 1885 che, prima ancora che della pittura, fa, come Francesco, del suo percorso mondano  un’opera d’arte. 

L’umiltà francescana

Un’umiltà autentica lo accomuna, anch’ essa, a Francesco, tanto che Vincent viene definito il ‘pittore della povertà’ , un artista che non cerca salotti prestigiosi con cui confrontarsi e da rappresentare nelle sue tele  ma dipinge esclusivamente minatori e tessitori , si impegna a  condividerne  la miseria di vita.
Egli aiuta Sien, una prostituta che ha l’onere di mantenere una figlia di 5 anni e aspetta un altro figlio La descrizione di se stesso come ‘ultimo degli ultimi’ emerge da un suo scritto del 1885 Afferma: “ Cosa sono io agli occhi della gran parte gente? Una nullità, un uomo eccentrico e sgradevole, qualcuno che non ha posizione sociale né ne avrà mai una, in breve l’infimo degli infimi. Ebbene, anche se ciò fosse vero vorrei sempre che le mie opere mostrassero quello che c’è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno”
L’espressività manifesta nell’uso veloce delle pennellate e del colore non si discosta mai dalle parole, dall’uso della scrittura che, insieme alle immagini, sono il suo modo di comunicare, di accedere al cuore dell’altro.
Vita artistica e vita reale si intrecciano e l’uso visionario del colore narra il suo pensiero, rivela il suo credo, i suoi sentimenti. Non mancano figure piene di dolorosa verità, arse dalla sofferenza compresa nell’atroce smorfia della bocca, negli i occhi saturnini.
La sua umiltà e il suo credo sono riconfermati dalle parole che scrive al fratello Theo: “Sai a cosa penso molto spesso? A quello che volevo dirti già da molto tempo fa: che se anche io non riuscirò,  sono convinto che ciò a cui ho lavorato verrà continuato – non direttamente –ma non si è mai soli a credere nelle cose vere. E allora che importa che io sia personalmente un uomo di successo? Sono talmente convinto che la storia delle persone è come la storia del grano: se non ci seminiamo in terra per germinare che cosa importa? Ci macinano per diventare pane”
L’immagine del grano che germoglia e della macina che trasforma il cereale in pane richiama il parallelo con il famosissimo quadro del ‘Seminatore” e, dal punto di vista religioso e dello spirito cristiano, suscita la plastica idea evangelica del seme che, per dar frutto, deve essere sparso in terra e morire.
Fervido credente, dunque, Vincent, come Francesco, ha condotto la propria vita all’insegna del messaggio cristiano e della condivisione della sorte degli ultimi nella pratica concreta
di quel monito evangelico volto a rappresentare nel seme che muore il percorso di donazione al prossimo e di ascesi del credente.                   
Pittore della povertà, dunque, ritiene che la vera arte sia quella di Cristo che modella gli uomini di viva carne attraverso la conversione.

La conversione

Se nella vita dell’Assisiate possiamo individuare il momento cruciale della conversione nell’incontro con il lebbroso e in quello  con il Crocifisso di S. Damiano, per Vincent il punto di svolta è rappresentato dal 1880, quando egli  inizia  ad avere chiara l’immagine del pittore che, alla luce del Vangelo, cerca di trascendere il finito e attraverso i mezzi di cui dispone, segue l’icona del Seminatore.  Van Gogh si confronta con Millet e con il suo ‘Seminatore’, confermando il fatto che anche nei pittori più tormentati la figura di Cristo è stata un punto di riferimento costante
Vincent, figlio di un predicatore della scuola di   Groninga, inizia a seguire le orme del padre ma, dopo una serie di fallimenti, abbandona la carriera di pastore e inizia a dedicarsi al mercato dell’arte; nel mentre la sua formazione presso gli ambienti riformisti gli consente una quotidiana frequentazione delle sacre Scritture e dei testi di spiritualità, volti alla devozione e all’imitazione di Cristo.
Da tale terreno si edifica la sua poetica e si esprime il suo simbolismo ; egli ricerca nella realtà del quotidiano i segni della sacralità delle Scritture, il suo impegno artistico è volto a rinvenire nelle vicende della vita, che intende rappresentare, il compimento del sentire cristiano Secondo quanto appreso dalla scuola di Groninga,  Vincent  fonda il suo lavoro su un impegno individuale, una spiritualità manifesta nel comportamento  devozionale del singolo credente che sa superare l’aridità del dogma.
Un pittore nel cuore del calvinismo, religione iconoclasta che è diffidente dinanzi alla rappresentazione mediante le immagini della sacralità e della fede, pratica che è considerata idolatra dagli adepti.
Eppure, l’uso delle immagini ricorre nella società olandese dell’epoca. Il calvinista ricerca nel Vecchio Testamento le immagini preconizzanti la venuta del Salvatore L’artista, attraverso la tradizione degli emblemi, imprime sulla tela le immagini volte a rappresentare e a cogliere nel finito la rivelazione dell’infinito, nella natura i segni del divino. Colpisce in questa modalità del sentire e del rappresentare la realtà di Van Gogh la similitudine con la spiritualità francescana ed in particolare con quella del grande maestro della scuola francescana, Bonaventura da Bagnoregio, il cui esemplarismo rinviene nelle creature e nel creato, con tutte le sue manifestazioni, il segno del divino.
Tale segno non è accessibile, prima facie, all’uomo la cui vista è offuscata e deve gradualmente liberarsi dai veli della materialità per orientarsi verso un percorso di ascesi che progressivamente lo avvicini al divino e gli faccia cogliere, nella bellezza e varietà del  creato, la presenza dell’Onnipotente, di cui parla ogni sua creatura.
Così Vincent si rifa a Millet, il pittore da lui considerato “l’archetipo del credente”, le cui tinte esprimono il sentire evangelico, rappresentano “la dottrina di Cristo”, pur senza dipingere apertamente soggetti biblici. Il Seminatore, dunque, non è solo la rappresentazione di un paesaggio agreste ma è il manifesto dei valori trascendentali.
L’afflato vocazionale di Van Gogh si concreta in quell’uomo intento a seminare che, nel contempo, ci indica sia il  seme gettato nel buon terreno “ che frutta cento volte tanto”, sia il soggetto che, con i suoi quadri e la loro forza creatrice,  rappresenta Cristo: egli  modella “ gli uomini di viva carne” mediante la conversione.
Attraverso la dialettica del superamento il comune agricoltore si fa prossimo a  quel Messia  che solca la ciclicità dei tempi e compie la promessa della Resurrezione. Un percorso ascetico, un superamento dei limiti umani che si esprime nella luminosità del colore e nel suo intento di superare il grigio, trasformato in luce e in vita.
Il pittore dei coloratissimi girasoli,  tanto rappresentati nei suoi quadri – e sparsi a  ricoprire la sua bara il giorno della morte –  l’amante delle notti stellate, geniale e folle, si rivela in quel  Vincent che esprime la sua arte tracciando una nuova via : si tratta di  un percorso originale che,  oltre ad essere formale,  è di contenuto, in quanto rivela il dovere di chi dipinge, cioè il ‘mettere un’idea nel suo lavoro’, una nuovo pensiero che considera l’artista come missionario “ seminatore del Verbo e Luce nelle tenebre”
Anche in questo profondo intento vocazionale di Van Gogh si coglie subito il parallelo con il Poverello di Assisi, la cui intera esistenza sarà dedicata ad un’unica missione, quella di  esprimere con il proprio vissuto l’incarnazione del Vangelo, impresso nella propria carne sino al privilegio delle Stimmate,  sino a farne missione in tutto il mondo, rivelando ovunque la parola di Cristo, in un percorso universalista che lo porterà persino in Oriente presso il Sultano.
Interessante il film recente di Schnabel, “ Sulla soglia dell’eternità” che stravolge le consuete narrazioni del taglio dell’orecchio e del suicidio di Van Gogh, fornendoci una diversa versione delle sue vicende di vita. Ne consegue che la tradizionale immagine pubblicamente dominante di un Van Gogh, pittore e modello per  intere generazioni di “ maudits”, i quali nell’artista olandese trovarono un epigono, non è forse la più consona a rappresentare il vissuto e il messaggio dell’artista, la cui vita è stata quotidianamente e coerentemente impegnata nella ricerca del  bene e nella rappresentazione del bello.
Una vita, quella di Francesco e di Vincent, vissute mediante una coerenza estrema di condivisione della sorte degli ultimi, di impegno assoluto in quel difficile che diviene impossibile ai più, manifestazioni di un amore senza limiti, capace perciò di sconfinare nella follia.
Genio e follia sono i due poli della vita di Vincent, follia è quella di Francesco che lascia la sua famiglia, i suoi beni, la sua prestigiosa posizione sociale per tentare una via cha mai nessuno prima di lui aveva percorso: cammina lungo le strade di Assisi e i suoi concittadini e parenti gli offrono a mo’ di  cibo, la badia dei cavalli, deridendolo per la sua pazzia. Entrambi, l’olandese e il Poverello, consumati da un impegno senza sosta che li logora, mina il loro fisico sino alla morte giunta per entrambi in giovane età
Per entrambi possiamo ricordare ed applicare le parole di Eschilo: “E’ bello amare sino a sembrarne pazzi”

Annarita Innocenzi
Docente di Filosofia e Diritto Costituzionale
Avvocato presso il Foro di Roma
Autrice di varie pubblicazioni sul ruolo dello Stato nel pensiero politico e di filosofia politica
Docente di economia politica e scienza delle finanze
ASSOCIATO di FareRete Innovazione il Bene Comune il benessere e la salute in un mondo aperto a tutti Michele Corsaro

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